Effetti della globalizzazione: dalle regole dei supervertici

all’organizzazione globale del dissenso

di Alberto Castagnola

E’ ormai quasi un obbligo, se si deve parlare di globalizzazione, di spiegare cosa si intende con questa parola, diventata tra le più fumose e mistificatorie di questo scorcio di secolo. Sono almeno tre i principali fenomeni economici che si stanno espandendo a scala mondiale in questa fase evolutiva del sistema oggi dominante: il comparto produttivo e commerciale costituito dalle imprese multinazionali, l’insieme complesso e variegato delle attività finanziarie non connesse all’economia reale e il grande sistema della comunicazione e dell’informazione, ancora in piena strutturazione.

Il resto, dal settore rurale di tutti i continenti alle grandi imprese nazionali e a tutte le piccole e medie imprese di ogni Stato anche industrializzato, segue ritmi di sviluppo assolutamente non comparabili con i comparti in via di globalizzazione. Tutto ciò richiede alcuni commenti e comporta numerose conseguenze. Intanto si deve notare che l’espansione delle multinazionali si è intensificata dalla fine della seconda guerra e da allora non si è mai sostanzialmente arrestata, anche se in alcuni paesi ha fatto registrare dei rallentamenti dovuti in genere al mutare dei governi locali e del favore delle popolazioni nei loro confronti, oltre che da variazione nei mercati o da apparizioni di concorrenti. Oggi le multinazionali rappresentano oltre un terzo dell’economia produttiva, oltre il 60% del commercio internazionale; inoltre il 42% degli scambi internazionali di merci si svolge tra filiali delle stesse imprese multinazionali (in concreto ciò significa che le merci viaggiano con dei prezzi che non sono quelli di vendita sui mercati ma quelli decisi dalle imprese al loro interno e quindi a vantaggio di questa o quella filiale). Questo gruppo di imprese comprende inoltre tutti i settori a tecnologia in rapido sviluppo (informatica, biotecnologie, ecc.) e ha praticamente il controllo delle scelte evolutive di gran parte della ricerca scientifica, in particolare di quella suscettibile di immediati guadagni (farmaceutica, agroalimentare, ecc.).

Anche l’espansione della seconda componente, le attività puramente finanziarie, ha accelerato negli ultimi 15 anni e non da segni di stanchezza, anche se desta delle preoccupazioni perfino in chi si deve occupare della stabilità del comparto, che le iniziative speculative tendono a turbare troppo spesso. I protagonisti delle attività finanziarie sono noti, fondi di investimento, fondi pensione, società di assicurazioni, uffici finanziari di banche e di imprese multinazionali, società finanziarie spesso individuate con il nome del finanziere che le controlla. Molto meno noti sono i flussi di capitali che vengono spostati per acquistare titoli, per effettuare compravendite di valute, o addirittura per fare scommesse sul valore futuro di una materia prima o perfino sugli stessi indici che segnalano l’andamento delle varie Borse! Una parte di questi capitali hanno origini illegali o criminali (provengono da vendite di droga, di armi oppure da tangenti) ma una volta trasformate in operazioni finanziarie si perdono le tracce di tali origini e diventano dei capitali come tutti gli altri.

Si deve ricordare che in ogni caso non si tratta di attività virtuali, cioè come fossero un videogame, o di operazioni di carta, cioè con un valore solo simbolico. Sono invece delle attività economiche, diverse da quelle produttive o commerciali, che permettono quindi guadagni e perdite reali e la loro importanza complessiva è in pochi anni diventata forse molto maggiore di quella dell’economia reale, nella quale noi crediamo di essere ancora immersi.

La terza componente è costituita da tutte quelle fusioni, ristrutturazioni, concentrazioni di telecomunicazioni, elettronica, televisioni, radio, case editrici, satelliti, ecc. che stiamo vedendo svolgersi sotto i nostri occhi in questi mesi e che preludono ad un ampio settore controllato da poche diecine di imprese transnazionali, che controlleranno i computer e le televisioni, i frigoriferi e le auto del prossimo futuro.

Queste tre componenti sono sicuramente in fase di globalizzazione, processo iniziato molti anni prima dell’uso di questa parola, e sono all’origine di alcuni fenomeni negativi sul piano sociale, dei quali ci ostiniamo a non voler riconoscere la gravità.

In primo luogo, questi processi creano pochissima occupazione nei paesi industrializzati, figuriamoci nelle regioni del sottosviluppo.

Inoltre potranno coinvolgere al massimo un miliardo di persone, mentre tutte le altre si stanno rapidamente dimostrando non "utili" in termini di mercato dei nuovi prodotti ad altissima tecnologia e quindi vengono progressivamente emarginate o escluse dai vantaggi del modello dominante.

Infine, questi processi svuotano rapidamente i poteri di Stati e Organizzazioni internazionali, già oggi molto più al servizio di multinazionali e finanzieri di quanto riusciamo a sospettare.

E’ sulla base di questa analisi che si possono comprendere la recenti contestazioni ad organismi come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale per il Commercio.

In via di principio (e molto idealisticamente!) ci si poteva aspettare che dovessero tutelare gli interessi di tutta la popolazione del pianeta, mentre in realtà la liberalizzazione spinta degli scambi commerciali e dei flussi di capitali ha fortemente favorito i grandi centri di potere economico, in grado di muoversi rapidamente e senza ostacoli, e non certo una famiglia a medio reddito o un abitante di favelas, inchiodati dalla mancanza di mezzi a un destino senza scelte.

Inoltre si è visto che il FMI, nelle crisi per eccessivo indebitamento di un paese povero, concedevano prestiti solo affinché potessero pagare i creditori dei paesi ricchi, senza preoccuparsi minimamente delle loro esigenze di sviluppo; che la Banca Mondiale finanziava progetti i cui guadagni andavano alle imprese dei paesi industrializzati, mentre nessuno garantiva che la diga o l’autostrada avrebbero aumentato il reddito delle popolazioni locali; che l’OMC non si preoccupava dei danni ambientali causati dal commercio di materie pericolose o di prodotti geneticamente modificati; e la lista degli esempi potrebbe continuare a lungo.

Inoltre ci si è resi conto che negli ultimi anni imprese multinazionali e entità finanziarie si preoccupavano sempre meno di mantenere in vita la finzione degli organismi internazionali interessati ai popoli, e ricercavano delle libertà assolute di movimento: il cosiddetto "turbocapitalismo" non aveva più bisogno di freni e salvaguardie e intendeva spaziare senza limiti.

E’ dalla presa di coscienza dei rischi che comporta un sistema privo di controlli e di compensazioni che nasce un dissenso diffuso a scala mondiale e che oggi si sta rapidamente organizzando per diventare più incisivo.

Gruppi di base, associazioni, organismi senza scopo di lucro e coalizioni e reti che li raggruppano e li rappresentano nascono anche dalla constatazione, amara e forzata, che governi, partiti e sindacati hanno perso molto della loro capacità di incidere su meccanismi di mercato così rapidi e potenti, e che soprattutto non considerano fondamentali per la loro azione i nodi sopra indicati, precludendosi così perfino la comprensione dei meccanismi in atto.

L’emergere di una società civile che cerca di affrontare dei temi fondamentali di economia internazionale, di salvaguardia dell’ambiente, di lotta alla povertà estrema, non può essere vista con gioia ed entusiasmo, perché nasce da un sistema democratico in gravi difficoltà e, al momento, senza prospettive. Deve essere invece considerato un movimento di resistenza, di lotta dura contro forze soverchianti, di difesa della sopravvivenza. E’ inoltre in una fase confusa di prima organizzazione, priva di modelli, dove alleanze e coalizioni si moltiplicano e si sovrappongono, si sciolgono e si riformano.

Le prime vittorie, poche ma significative, non bastano ancora per ottenere cambiamenti radicali delle organizzazioni internazionali e modifiche di fondo delle politiche economiche.

D’altra parte, basta rendersi conto che le nostre città e le nostre strade si sono trasformate nel giro di dieci anni da luoghi accoglienti e divertenti

in implacabili assassini; che il nostro cibo nasconde pericoli ormai innegabili, che guerre e migrazioni ci coinvolgono sempre più da vicino, per capire che è ormai giunto il momento di un impegno massiccio, diffuso, in prima persona, per cercare di modificare le prospettive e di reintrodurre la speranza di una umanità migliore nei nostri scenari individuali e collettivi.

Organizzare un dissenso globale non può essere affidato a poche migliaia di associazioni generose e lungimiranti, dobbiamo garantire, e non per un solo giorno, un sostegno a tutte le iniziative necessarie per debellare o almeno indebolire fortemente un sistema per troppo tempo lasciato libero di mutarsi e di espandersi senza limiti e senza oppositori.